La duecentesima rosa (racconto a quattro mani con Luca Briante)

Il professore usciva tutte le mattine alle otto. Due giri di chiave, un giro di tacchi sullo zerbino ed era in strada, la stessa da trentasei anni: un vialetto ombroso d'estate e brullo d'inverno, ma sempre lungo quattrocentoventidue passi.
Le case, in tutti quegli anni, avevano cambiato colore, forma e intenzione, ma non si erano mai spostate: gli era quindi sembrato assurdo incappare in quel roseto al trecentododicesimo passo. Una panchina verniciata di un verde acceso, circondata da cespugli di rose colorate, introduceva una minuscola villetta bianca, che evidentemente era sempre stata là, in attesa del suo passo numero trecentododici e del suo naso all'insù.
Perplesso, aveva raggiunto il bar per il solito caffè con due zollette.
"Sei vecchio – gli avevano detto – La villetta dei Conti c'è da una vita."
Lui aveva sperato che nessuno avesse notato le sue nocche farsi bianche dallo sforzo per trattenere la rabbia. Non aveva mai visto quel roseto,nè quella casa.
Era stato come, all'improvviso, aprire la porta dell'armadio e scoprirci un'intera stanza nuova.
"Vecchio."– pensava – "Forse hanno ragione" –ma voleva controllare, avere la prova del nove, come in ogni buona operazione matematica. "Alla fine i conti devono tornare. Sempre."– borbottava lungo la via del ritorno.
Sembrava proprio che i Conti fossero tornati, e si fossero ripresi la casa.
Le parole si prendono certe libertà che i numeri non osano, e il professore questo lo sapeva: ecco perché aveva sempre cercato rifugio nella sicurezza della matematica. Tutto – diceva – può essere ridotto ad una formula.
Tutto? Sì, non potevano esserci dubbi, solo errori di calcolo.
Eccolo quindi di nuovo lì, il mattino dopo, a rifare di nuovo l'operazione.
I passi erano giusti, trecentododici, ma quelle rose, quelle rose non avevano ragione di esistere, né di essere lì.
Ortensia era comparsa dopo poco, tra la conta dei mattoni e quella delle auto blu.
Il professore era trasalito: bellissima, almeno quanto i suoi detestabili fiori. Una rosa di capelli argentati trattenuti da uno spillone da zingara. Due occhi scuri e curiosi, quasi libertini nel suo fissare senza remore lo sconosciuto che rallentava il passo osservando in tralice la sua casa.
Lui non aveva resistito: il complimento avrebbe nascosto il desiderio di parlarle, di sapere.
"Signora, le sue sono le rose più belle del quartiere."
Lei aveva sorriso sghemba, con le braccia ai fianchi. "E lei che ne sa?"
"Prego?"
"Tutti i giorni non va oltre al bar. Non sembra uno che viaggia parecchio ma, se crede, si sieda e mi racconti delle rose che ha visto. O perlomeno delle mie. Mi piacciono i complimenti. E sono sicura che piacciano anche a loro."
"E lei come sa quel che faccio io tutti i giorni?" – il professore aveva girato velocemente i tacchi e per la prima volta era ritornato a casa senza andare al bar.
Mi racconti. Che vuole che le racconti? – pensava.
Prima di entrare si era voltato, ad assicurarsi di non essere seguito, e aveva dato un veloce sguardo al suo cortile di mattoni. Nessuna rosa.– aveva pensato, sorridendo.
I giorni passavano, ma lui si fermava sempre lì, dopo trecentoundici passi, come bloccato in un'equazione troppo difficile da risolvere.
"Sicuro che al bar non saranno preoccupati?"
Era così preso dal contare, da non sentire la domanda.
"Ogni giorno spunta un nuovo bocciolo, com'è possibile?"
"Ma lei conta tutto ciò che vede?"
"Certo che no, che domande!" Diamine sì, che domande!– avrebbe dovuto e voluto rispondere. "Ma si nota ad occhio, che aumentano."
"Ha una mente troppo logica, è questo che si nota ad occhio. Insegnerà mica matematica?"
Un altro errore nel sistema. Come poteva quella donna, senza prove né esperimenti, trarre conclusioni così precise? Le sue certezze iniziavano a scricchiolare, ma quando la vita di una persona è scandita dai calcoli, la cosa migliore non è forse mischiare qualche fattore alle somme, togliere o aggiungere qualche cifra? Magari può bastare un piccolo cambiamento al giorno, grande quanto un bocciolo di rosa.
"Ho quasi passato l'intera estate qui, tra le tue rose" – le aveva detto durante una delle ultime visite. Lei aveva sorriso, gli occhi socchiusi al sole.
"Vero. E i boccioli da allora sono aumentati e fioriti." – dolcemente aveva abbassato lo sguardo sui petali – "Dicono che alla duecentesima rosa finisca tutto."
Non poteva finire un bel niente, grazie a lei e alle sue rose aveva smesso di contare. I passi, gli uccelli, le auto, il bar: non contava più niente. Contava solo Ortensia, alla fine aveva dovuto dirglielo.
"Mi sono innamorato di te."
Ortensia aveva smesso di sorridere.
"Lo so. Ma la somma non cambia."
Avrebbe strappato l'intero roseto a mani nude. Per farla tornare alla realtà, per risvegliarla da quella favola così assurda e illogica, e tornare ad una quotidianità serena insieme. Ma in realtà l'avrebbe strappato per diminuire il numero delle rose, perché in cuor suo sapeva che era vero, e avrebbe ritardato l'arrivo di quel momento con qualsiasi mezzo.
Alla fine non aveva potuto far altro che andarsene a casa a rimuginare su quanto lei si fosse rivelata imperfetta nel suo credere ciecamente ad una stupida conta da zingari. Quando aveva letto che l'ortensia è il fiore di chi fugge, tutto gli era chiaro.
La mattina dopo era uscito prima del solito, poiché l'amore non si può misurare, o contare, e neppure scrivere in tutti i libri che il professore aveva in casa. L'amore si deve vivere.
Nonostante la corsa e i salti di marciapiede, di Ortensia non c'era più traccia. La casa era in vendita, rose comprese.
Seduto sulla panchina, aveva iniziato a contarle finché si era accorto che erano centonovantanove. La profezia era sbagliata, lei se n'era andata di sua volontà.
Pochi metri dopo, però, aveva calpestato qualcosa: un bocciolo di rosa, dal colore intenso e vibrante quanto il dubbio.

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